Il disagio giovanile è evidente nei numeri: in Italia si tolgono la vita quattro giovani alla settimana ed i suicidi sono in controtendenza in questa fascia d’età rispetto alle altre.
Il disagio adolescenziale il più delle volte si manifesta nella richiesta di relazioni significative e nei tentativi di uscire da una solitudine soffocante, in assenza di adulti di riferimento. Questi ragazzi, dall’identità fragilissima, bombardati da messaggi che fanno coincidere felicità e successo, si spezzano e chiedono aiuto con frasi del tipo: «io non voglio funzionare, voglio vivere!».
Per vivere bisogna crescere e non funzionare, educare non è «far funzionare» in base a canoni esterni ma «far crescere» dall’interno, mettendo in condizione di scegliere liberamente tra ciò che fa progredire e ciò che fa regredire. Solo un’educazione autorevole, che mette in condizione di crescere, rende prima «liberi» e poi «autori» della vita, permettendo «fioriture» e non «tagli»: si fa del male chi percepisce la propria vita come un male e usa il dolore fisico per avere attenzioni e per far sparire quello metafisico, frutto della povertà di senso della vita e di assenza di amore gratuito.
Cosa possiamo fare noi, generazione educante?
Il suicidio o i suoi sintomi che, silenziosamente (perché non ne parliamo abbastanza o ne parliamo a sproposito), avvelenano cuori e teste dei ragazzi, ci indicano una via: rifare l’edificio culturale in cui ci sentivamo al sicuro da decenni, che si è prima incrinato con la crisi economica per poi crollare con la pandemia. Ma a noi non è chiesto di costruire torri per raggiungere il cielo, ma di far crescere le vite che il cielo, e quindi il futuro, ce l’hanno già nelle radici.
Tratto da “Formiche mentali” Alessandro D’Avenia 7/3/2022